Niente è dovuto al caso.

Tutto è governato dal caso.

Quale di queste due affermazioni è vera? o sono vere tutte e due?

Nella visione del mondo di Laplace, degli illuministi e nella cultura dell‘800 il caso, in linea di principio, non esisteva; tutto era preordinato e determinato, e se si parlava di caso era solo perché non si conoscevano tutte le condizioni che determinano un evento.

Bastava avere una vasta intelligenza e un’ampia memoria perché tutto ci apparisse chiaro, perché tutto si svolgesse secondo le leggi conosciute e, quindi, perché tutto fosse prevedibile.
D’accordo, l‘uomo non possedeva ancora la vasta intelligenza e l‘ampia memoria. e quindi l‘uomo non era ancora in grado di prevedere tutto; per questo Laplace era ricorso alla metafora del demone, essere sovrumano in grado di prevedere tutto il, divenire dell‘Universo e dell’uomo. Ma, in linea di principio, tutta questa conoscenza era possibile: bastava solo aspettare che l‘uomo sviluppasse ancora un po‘ le sue facoltà, o che si dotasse di marchingegni in grado di sopperire alle sue mancanze.

E non potrebbe darsi che oggi, nell‘era dei computer, capaci di memorizzare un numero enorme di dati e di determinarne, in pochissimo tempo tutte le correlazioni… sia possibile questa vasta conoscenza e quindi prevedere tutto?
La cultura del ‘900, sia l‘arte che la scienza, ha detto di no, che non è possibile, riconoscendo al caso un suo specifico ruolo nella creazione dell’Universo che ci circonda o nella creazione di un‘opera d‘arte.
Tuttavia vediamo che il sole nasce ogni giorno a est, non a caso, ma a un‘ora che sappiamo prevedere, e sappiamo anche prevedere con esattezza l‘eclissi, e abbiamo mille occasioni di verificare l‘esattezza delle previsioni della scienza.

Ed allora, se proprio vogliamo riconoscerne l‘esistenza, dobbiamo chiederci cosa s’intenda per caso, quale sia la sua funzione, quale il suo rapporto con l’ordine e le leggi che il metodo scientifico ha identificato e che il buon senso riconosce nella vita quotidiana.
Eppure parlare del caso, a noi moderni, spaventa, dà angoscia, perché rappresenta pur sempre qualcosa di inaspettato, il sopraggiungere dell‘ignoto, di un destino che ci sovrasta.
Nell‘antichità non era così, il Fato portava sempre a compimento ogni mutazione.

Tutto, vita e morte e armonia della natura era inserito in un ciclo che aveva la sua manifestazione in qualche traiettoria celeste, espressione sensibile delle forze nascoste che governano il mondo.
Ed anche il tempo era circolare, scandito dal ciclo.
Tutto si ripresenta identico ad una stessa origine.

Eterno Ritorno che è la rappresentazione cosmica del ciclo dell’esistenza in cui è assente ogni idea di progresso. Gli avvenimenti umani non avevano Storia, così come noi l‘intendiamo. Tutto, vita, morte e armonia della natura era inserito in un ciclo cosmico. Come ci ricorda De Santillana, per il pensiero arcaico l‘universo celeste è un immenso scadenziario che scandisce i destini e l‘evoluzione dell’uomo.
Il Fato era accettato, amato, Amor Fati, come qualche cosa che sospinge verso una meta finale, una terra promessa, anche se questo viaggio drammaticamente comportava la distruzione della personalità attraverso apparenti destini di morte. Ma la meta del viaggio era comunque un ritorno a casa, alla casa del padre, ed il Fato non era tragicamente subito come una punizione degli Dèi.
Oggi invece, a noi moderni, il caso spaventa, dà angoscia, anche se ripetiamo spesso, forse solo per abitudine, “Sia fatta la tua volontà “.
E allora cerchiamo di esorcizzare il caso, di dominarlo, utilizzando proprio quello a cui più spesso ricorriamo per avere sicurezza: il pensiero razionale. E quindi per controllare il caso utilizziamo la matematica, il calcolo delle probabilità, la statistica.
Forse l‘uso, molto spesso distorto, e l‘abuso che oggi si fa dell‘indagine statistica hanno proprio il significato di un inconscio e profondo bisogno di allontanare da noi l‘idea di caso e il timore dell’imprevedibile che a quest‘idea si collega.
Al calcolo delle probabilità e alla statistica, si sono dedicati anche i più grandi matematici, quali Pascal, Gauss, Laplace, Poincaré; a loro e ad altri si deve quel complesso apparato matematico che ci permette di conoscere le “leggi del Caso” dandoci l’illusione di dominarlo. Perché d‘illusione si tratta.
Innanzitutto dobbiamo prendere coscienza di un paradosso. Ad esempio le compagnie di assicurazione, possono prevedere che nel prossimo Week end vi saranno da 60 a 80 morti per incidenti stradali, e hanno ragione, perché possiamo verificare, trascorso il week end, che è stato effettivamente così.
In questa azzeccata previsione, possiamo vedere la potenza del calcolo che ci permette di dominate il caso, relegandolo in un numero che sappiamo prevedere e misurare, come la data di un’eclisse.
Ma se l’incidente ci riguarda da vicino, il caso, l’imprevedibile, il destino, riacquista tutta la sua drammatica importanza:
“perché proprio a me? “
Il paradosso sta proprio qui.
La scienza, cui ricorriamo per dominare il caso, conosce solo i grandi numeri, funziona solo quando facciamo riferimento ad un gran numero di eventi fra loro simili.
Ma la nostra vita è individuale, distinta da tutte le altre vite anche se simili, unica. E non c’è una scienza dei casi unici. Come individui siamo sottoposti al Fato. E se ci capita un incidente è la sfortuna, il caso sfavorevole, che ha fatto la sua scelta e ci ha preso fra le sue vittime.
In fondo aveva ragione Trilussa quando scriveva
“La statistica è quella cosa per cui, se io ho mangiato due polli e tu nessuno, ne abbiamo mangiato uno per uno”.

Ma c’è anche un’altra considerazione da fare, e per farla possiamo ricordare una saga islandese del XII sec……Hising era una città che aveva legato le sue sorti, ora alla Norvegia ora alla Svezia.
Il re di Svezia e il re di Norvegia si accordarono di lasciare che fosse la sorte a decidere a chi dovesse toccare il possesso della città: essi avrebbero lanciato i dadi e avrebbe vinto chi avesse conseguito il totale più elevato.
Il re di Svezia lanciò ed ottenne due sei… Fu poi la \volta di re Olav, e uno dei due dadi diede ancora sei, mentre l’altro si ruppe in due pezzi che mostrarono due facce diverse del dado, un quattro e un tre, per un totale di sette punti.
La città fu assegnata dunque a re Olav.
Cosa ci insegna questa storia?
Tutte le razionalizzazioni che possiamo fare, tutti i calcoli cui possiamo ricorrere per prevedere il futuro, sono pur sempre basati su metafore, modelli, idealizzazioni che cercano di dominare una realtà, troppo ricca e imprevedibile, che non si lascia racchiudere in un unico schema logico.
Nonostante le nostre teorie, non saremo mai liberati dall’emozione davanti all’imprevisto, dal timore dei pericoli che si celano in terre sconosciute, dal turbamento che proviamo quando vediamo rompersi il dado e uscire il sette.

Come ha scritto Mallarmè: “Mai un colpo di dadi potrà abolire il caso”.
Ma è solo un poeta che giunge a questa conclusione?
No, anche la fisica e la matematica del ‘900 hanno dovuto riconoscere il ruolo della contingenza, del caso. Dapprima, nei primi decenni del secolo, il caso si è imposto nel mondo sottile, quello degli atomi e delle particelle. Poi, a partire all‘incirca dagli anni ‘60, si è scoperta l‘imprevedibilità anche nella natura quotidiana, nella meccanica, nel moto dei pianeti, nel mondo cioè che si credeva completamente descritto dalle equazioni di Newton e della fisica classica.