Quella che Giaida chiamava la «bussola del cuore» è in realtà una forma di comunicazione tra il cervello e il cuore, che avviene attraverso il nervo vago. Le ricerche hanno evidenziato che è il cuore ad inviare più segnali e, benché sia il sistema cognitivo sia quello emozionale siano intelligenti, un numero molto maggiore di connessioni neurali procede dal cuore al cervello che non viceversa. I nostri pensieri e le nostre emozioni sono potenti, ma un’emozione può mettere a tacere un pensiero, mentre è raro che riusciamo a placare un’emozione forte adoperando l’intelletto. Anzi, le emozioni più intense ci inducono a rimuginare, a pensare in modo ossessivo. Riteniamo che la mente sia razionale ed il cuore sia relazionale, ma in ultima analisi il cuore e la mente fanno parte di una sola intelligenza. La rete neurale che circonda il cuore, è una parte essenziale del processo con cui pensiamo e ragioniamo. La nostra felicità individuale ed il nostro benessere collettivo dipendono dall’integrazione e dalla collaborazione di mente e cuore. Giaida mi aveva insegnato a mettere in relazione i due cervelli del mio corpo, quello della mente e quello del cuore; ma io, per decenni, avevo ignorato l’intelligenza del cuore. Pensavo che bastasse il cervello per emanciparmi dalla povertà e farmi valere, ma alla fine è stato il cuore a darmi la vera ricchezza.
Il cervello sa molte cose, ma la semplice verità è che ne sa molte di più quando si unisce al cuore.
L’ Ipnosi profonda, la mindfulness e la visualizzazione, i nomi che oggi si danno a ciò che Giaida mi ha insegnato, sono tecniche utilissime per trovare la pace, eliminare le distrazioni e compiere un viaggio dentro di sé. Aiutano a concentrarsi ed a prendere decisioni più in fretta, ma senza la saggezza e l’intuizione (l’atto di aprire il cuore) quelle tecniche possono condurre all’egocentrismo, al narcisismo.
Il nostro viaggio non deve condurci solo verso l’interno, ma anche fuori di noi, verso gli altri. Quando andiamo verso l’interno, ed il nostro cuore è aperto, ci connettiamo con il cuore, e lui ci spinge ad andare fuori, a connetterci con gli altri. Il nostro è un viaggio di trascendenza, non un’autoriflessione senza fine.
C’è un motivo se oggi gli operatori di Borsa praticano la autoipnosi: queste tecniche li aiutano non solo a concentrarsi meglio ma, in certi casi, anche a diventare più spietati. Era su questo rischio che Giaida mi aveva messo in guardia prima di insegnarmi a visualizzare. Sì, possiamo creare ciò che vogliamo, ma solo l’intelligenza del cuore può dirci cosa vale la pena creare.
C’è un’epidemia di solitudine, ansia e depressione, soprattutto in Occidente. Un impoverimento dello spirito e della connessione con gli altri. Gli studi mostrano che il 25 % degli europei non si sente abbastanza in confidenza con qualcuno per condividere i problemi. Ciò significa che una persona su quattro non ha nessuno con cui parlare, e questa solitudine ha effetti negativi sulla salute. Siamo fatti per stare in società – la nostra specie si è evoluta per cooperare e stabilire relazioni – e quando la connessione viene meno ci ammaliamo.
Le ricerche hanno evidenziato che la socialità ci fa vivere più a lungo, ci aiuta a rimetterci in fretta, quando stiamo male, mentre l’isolamento e la solitudine ci espongono al rischio di malattie e di morte precoce, più delle sigarette. Una buona vita sociale ha effetti sulla salute mentale, più profondi di quanti ne abbiano l’esercizio fisico sulla salute fisica. Ci fa stare bene. I rapporti sociali stimolano nel cervello gli stessi centri della ricompensa che si attivano quando si fa uso di droghe, si beve alcol o si mangia cioccolata. In altre parole, ci ammaliamo da soli e guariamo insieme.
Rinunciando alle ultime ricchezze che mi restavano, imparai la lezione che non avevo compreso con Giaida. La verità ultima, il gran finale del suo insegnamento, era che l’unico modo per cambiare e trasformare davvero la nostra vita in meglio consiste nel trasformare e cambiare le vite degli altri. Giaida mi aveva trasmesso metodi e tecniche, ma dedicandomi il suo tempo e la sua attenzione mi aveva insegnato la magia più grande e più vera: il potere della compassione non solo nel curare le ferite del nostro cuore, ma anche quelle dei cuori di chi abbiamo intorno.
È il dono più grande e la più grande delle magie.
Ogni cosa è bella, se la si osserva da lontano. Dopo essere tornato alla medicina, potevo guardare alla mia vita a Newport Beach e scorgere la bellezza in ogni sbaglio, in ogni errore di valutazione su ciò che contava davvero. Nel lontano 1968 avevo detto a Giaida di voler diventare un terapeuta: dopo aver visto sparire tutti i soldi e quasi tutti gli amici capii che era quella la mia magia più potente.
Non sapevo bene come procedere dopo lo scoppio della bolla delle dot-com, né se volevo restare a Stanford come docente. Il mio interesse per l’imprenditoria non era mai stato così scarso. In passato avevo fatto il consulente per ospedali a corto di neuroscienziati o che aspiravano a diventare centri di eccellenza in quella disciplina. Per me era importante offrire la migliore assistenza possibile, soprattutto nelle aree in cui la maggioranza della popolazione viveva sotto la soglia di povertà.
Una volta mi chiesero una consulenza in un ospedale. Poiché era a un’ora da Cagliari, città che amavo ed in cui avevo studiato medicina, ed il viaggio non mi comportava alcuna spesa, accettai. L’ospedale era il principale fornitore di cure per la popolazione povera della zona ma, come spesso accade, molti medici erano restii a offrire lì le prestazioni a causa dei rimborsi troppo bassi. Ad aggravare quella situazione, c’era la concorrenza di un facoltoso ospedale privato che, senza fatica, riusciva ad accaparrarsi i servigi di molti specialisti. Le carenze riguardavano non solo la neurochirurgia, ma anche la neurologia, l’ortopedia e la riabilitazione post ictus. Il problema, feci presente all’amministrazione dell’ospedale, era nel modo in cui reclutavano i medici. Dovevano allettarli, spiegando loro che avevano la possibilità di sviluppare un centro di eccellenza regionale. Si trattava di fare appello non solo al loro ego, ma anche a quella molla che li aveva spinti a diventare medici: la volontà di fare la differenza.
Per creare quel centro servivano molti soldi. Dopo la presentazione, il consiglio di amministrazione approvò all’unanimità lo stanziamento di fondi per un centro regionale specializzato in neuroscienze, se io avessi accettato di dirigerlo. Era un’opportunità per far crescere un posto. Chiesi l’opinione di colleghi e amici: nessuno di loro capiva perché volessi lasciare il piacevole clima della California settentrionale e la vivace comunità intellettuale del grande ateneo in cui ero inserito. Ma dopo varie visite, durante le quali incontrai persone straordinarie e mi resi conto di quanto sarebbe stato determinante il mio contributo, decisi di trasferirmi. In tempi relativamente brevi riuscii a reclutare un’ottima squadra di colleghi, entusiasti del progetto.
Nel frattempo mi ero risposato, con una donna straordinaria che avevo conosciuto poco prima di dar via le azioni della Accuray. Avevamo un figlio piccolo, e mia moglie trovava difficile accettare i miei lunghi orari di lavoro. Alla fine decidemmo che lei sarebbe tornata in California con il bambino, ed io sarei rimasto in Italia, andando a trovarli ogni sei-otto settimane.
Molti amici e colleghi non capivano, ma non potevo abbandonare coloro che avevano creduto nella mia visione di un centro regionale, molti dei quali erano diventati cari amici. Restai per altri due anni, in seguito continuai a essere coinvolto nel lavoro della clinica, che divenne il centro di eccellenza da me immaginato tanti anni prima. Quando infine me ne andai sapevo di aver costruito qualcosa di più grande di me. Dopo aver perso le mie ricchezze mi ero impegnato ad aiutare gli altri, e quel centro, che rispondeva alle necessità dei poveri, mi sembrava una specie di espiazione per gli anni che avevo passato a inseguire i soldi e il potere.
Mentre valutavo se tornare in California, capii che volevo davvero tornare a Stanford. Mi ero interrogato su cosa rendesse così efficaci gli insegnamenti di Giaida ed ero giunto alla conclusione che il loro nucleo era l’idea di aprire il cuore. Agire con gentilezza e compassione, e con intenzione. Mi interessava studiare le interazioni tra mente e cuore: era possibile che la compassione, la bontà e il desiderio di aiutare il prossimo avessero una manifestazione fisica nel cervello?
Quando rientrai a Stanford e ripresi a insegnare neurochirurgia, iniziai a parlare con i colleghi di psicologia e neuroscienze per scoprire che tipo di ricerche si svolgessero in quell’area. Venni a sapere che un gruppetto di ricercatori stava conducendo uno studio rivoluzionario su come la compassione, l’altruismo e la gentilezza stimolano i centri della ricompensa nel cervello, influenzando positivamente la fisiologia periferica. Era emerso che la gentilezza e la compassione fanno bene alla salute. Quella ricerca divenne la mia priorità, e ricominciai a praticare le tecniche imparate da Giaida, sviluppandole però sulle lezioni che avevo appreso. Il mio quaderno era andato distrutto con l’uragano Katrina, quando la nostra casa si era allagata, ma ripensavo alle conversazioni con Giaida, sperando, a decenni di distanza, di capirci qualcosa di più. Mi immersi nella ricerca che stava dimostrando scientificamente gli effetti benefici di ciò che lei mi aveva insegnato. Volevo studiare cosa significa aprire il cuore e comprendere perché per lei fosse la cosa più importante. Redassi un elenco in dieci punti, simile ai dieci obiettivi che avevo stilato anni prima. Le dieci cose che aprono il cuore.
Ci pensai su. Lo rilessi più volte e all’improvviso mi apparve come l’acronimo di una mnemotecnica, PRODIGARCI. Era un modo per ricordare i vari aspetti di ciò che avevo imparato. L’alfabeto del cuore. Mentre proseguivo la pratica della autoipnosi, che mi era stata insegnata in quel retrobottega, presi l’abitudine di recitare ogni mattina anche questo nuovo mantra. Dopo aver rilassato il corpo e calmato la mente, sceglievo una qualità tra le dieci, come intenzione da enunciare per quel giorno. Le ripetevo mentalmente a oltranza. Scoprii che mi dava un senso di stabilità, non solo come terapeuta, ma come essere umano. Mi consentiva di iniziare la giornata con un’intenzione forte.
L’alfabeto del cuore
P: Il perdono è uno dei doni più grandi che si possano fare a un’altra persona. E anche a noi stessi. Si dice che covare rabbia ed ostilità nei confronti di chi crediamo ci abbia fatto del male è come bere del veleno e sperare che uccida l’altra persona. In realtà la rabbia avvelena noi, le nostre interazioni con gli altri, la nostra visione del mondo. Alla fine ci rende prigionieri di una cella, di cui abbiamo le chiavi, ma da cui non vogliamo uscire. La verità è che ciascuno di noi, prima o poi, fa del male all’altro. Siamo esseri fragili, ed in certi momenti della vita non riusciamo ad essere all’altezza dei nostri ideali e facciamo soffrire gli altri.
R: Il rispetto è una virtù che molti trovano difficile da praticare. Siamo pieni di noi, orgogliosi dei nostri successi; ci preme mostrare il nostro valore e la nostra superiorità. La verità è che questi sentimenti dimostrano la nostra insicurezza. Cerchiamo un riconoscimento del nostro valore al di fuori di noi stessi. E così facendo ci separiamo dagli altri. È come essere messi in cella d’isolamento, un luogo solitario. Solo quando riconosciamo che ogni persona, come noi, ha pregi e difetti, e quando ci consideriamo uguali agli altri, riusciamo davvero a connetterci. È questo legame, l’umanità che abbiamo in comune, a renderci liberi di aprire il cuore e di amare in modo incondizionato. Vedere l’altro come uguale a sé.
O: L’obiettività è la capacità di mantenersi equilibrati, nei momenti difficili come in quelli buoni. Sia lo sforzo di aggrapparci al bene, di conservare l’euforia che sentiamo quando siamo felici, sia quello di sfuggire al male, ci distraggono dalla necessità di concentrarci sul presente. È irrealistico pensare di poter essere felici per sempre, sperarlo conduce solo alla delusione. Gli alti e bassi sono sempre transitori. L’obiettività stimola la chiarezza di pensiero e di intenzione.
D: La dignità è una realtà innata in ciascuno di noi, che merita di essere riconosciuta e accettata. Troppo spesso formuliamo giudizi sulle persone basandoci sul loro aspetto, sul loro modo di parlare e di comportarsi. E spesso si tratta di giudizi negativi. Dobbiamo guardare l’altra persona e pensare: È proprio come me. Vuole ciò che voglio io: essere felice. Quando guardiamo l’altro e vediamo noi stessi, siamo spinti a connetterci con lui e ad aiutarlo.
I: L’integrità richiede intenzione. Dobbiamo selezionare i valori che riteniamo più importanti per noi e metterli in pratica con costanza nelle relazioni con gli altri. I nostri valori possono sgretolarsi, e questo processo all’inizio può essere impercettibile. Se compromettiamo la nostra integrità una volta, diventa facilissimo farlo di nuovo. Occorre essere vigili e diligenti.
G: La gentilezza è la premura nei confronti degli altri ed è spesso considerata il lato attivo della compassione: la predisposizione a prendersi cura degli altri senza desiderare riconoscimenti per sé. La cosa straordinaria è che, stando a recenti ricerche, un atto di gentilezza non fa bene solo a chi lo riceve, ma anche a chi lo fa. Il suo effetto si propaga verso l’esterno come le increspature dell’acqua quando lanciamo un sasso, rendendo più probabile che anche le persone intorno a noi siano più gentili. È un contagio sociale che avvantaggia tutti. E prima o poi la gentilezza ci torna indietro, attraverso i sentimenti positivi che genera ed il modo in cui ci trattano gli altri.
A: L’amore, quando viene dato liberamente, trasforma tutto e tutti. È il contenitore di ogni virtù. Rimargina le ferite. Alla fine dei conti, a curare non sono la tecnologia e la medicina, ma l’amore. Ed è proprio nell’amore che è racchiusa la nostra umanità.
R: La riconoscenza consiste nel comprendere che la vita è una benedizione, nonostante dolore e sofferenza. Siamo consapevoli che tante persone soffrono, con poche speranze di una vita migliore. Troppo spesso ci guardiamo l’un l’altro e coviamo gelosia o invidia. Pochi istanti dedicati a provare gratitudine sortiscono un effetto straordinario sull’atteggiamento mentale: ci fanno capire all’istante quanto siamo fortunati.
C: La compassione è la consapevolezza della sofferenza dell’altro unita al desiderio di alleviarla. Ma per essere compassionevoli con gli altri dobbiamo prima esserlo con noi stessi. Molte persone si auto criticano in modo spietato, e così facendo non si trattano con la stessa magnanimità che sono pronte ad offrire. E finché non diventiamo buoni con noi stessi, ci risulterà difficile dare amore e gentilezza al prossimo.
I: L’imparzialità nasce dalla consapevolezza che in ciascuno di noi c’è un desiderio di giustizia. È più facile quando abbiamo le risorse ed il privilegio di poterla pretendere, ma dobbiamo garantirla anche a chi è fragile. È nostro dovere ricercare la giustizia per chi è vulnerabile, prenderci cura dei deboli, dare ai poveri. È ciò che definisce la nostra società e la nostra umanità e ciò che dà significato alla nostra vita.
Questa mnemotecnica mi connette al cuore e gli permette di aprirsi. Mi consente di iniziare ogni giornata con un’intenzione ed uno scopo. E, quando sono stressato o mi sento vulnerabile, mi offre un centro di gravità, nel posto in cui ho scelto di essere. È il linguaggio della mia intenzione. È la lingua del cuore.
Se Giaida fosse qui, scoprirebbe che ho finalmente imparato ad aprire il cuore. Ed è ciò che ha fatto la differenza.