Prologo

In un’epoca lontana che noi chiamiamo “aevum medium” erano sorte, fra gli animi ed i popoli, forze ostili e tremende, i paesi erano percorsi da gemiti di guerra, tremori e lutti, come per  le grandi battaglie.

Tra Imperatori e Papi ardeva un conflitto sanguinoso, le città si ribellavano ai tiranni ed ai corrotti e tra la gente divampavano dissidi sanguinosi.
La Chiesa romana, dominatrice del mondo, più volentieri si occupava di armamenti, di alleanze e di legazioni diplomatiche, scomuniche, persecuzioni e castighi, piuttosto che della pace e della salvezza delle anime. Una paura sottile serpeggiava nell’animo di molti e con l’aria rarefatta delle campagne semi deserte si respirava un profondo disagio.

Comparvero tra il popolo molti nuovi maestri, che sfidarono con la luce del loro esempio e con assoluto sprezzo del pericolo per la loro incolumità le più severe persecuzioni; altri, abbagliati da sostanziose prebende corsero in massa verso una terra promessa.
Pareva che in nessun luogo vi fosse una guida, e che nonostante i bagliori di uno splendore mai spento, l’Occidente, cuore della terra, fosse prossimo al dissanguamento.
Venne allora dall’Umbria un uomo giovane e sconosciuto, che con dolorosa coscienza e profonda umiltà, non volle strappare dalle sue carni i segni del suo tempo, e che, con il valore della sua opera, liberò dalle catene spazio-temporali l’intera umanità lasciandole, come fiume impetuoso che si getta da una gola, una eredità che non perirà mai nella sua coscienza.

Egli aveva il nome di Giovanni di Bernardone, detto poi Francisci, e fu un uomo assai estroso, colto e profondo conoscitore delle cose di questo mondo, i suoi contemporanei lo chiamavano: <<Homo alterius saeculi>>, ovvero uomo di un altro mondo, tale era l’originalità e l’autenticità che egli da ogni suo gesto sprigionava. Certamente vi fu anche chi si appropriò, in vita come in morte, di tale suo genio, per fondare un intero edificio di culto, che – lui vivo – difficilmente nella sua altissima umiltà avrebbe accettato.
Francesco, come tutti i giovani cavalieri della sua città, partecipò alla guerra tra Perugia ed Assisi rimanendo prigioniero per circa un anno nella città nemica. Questo periodo di prigionia, aggravato dalla prima delle malattie, che lo resero per tutta la sua esistenza compagno della sofferenza, mutò così radicalmente la sua vita che, al ritorno a casa (dopo il pagamento da parte del padre Pietro di un lauto riscatto), la sua spiritualità emerse con veemenza tale da stravolgere la sua vita, assieme alla vita di coloro che lo amavano e lo ammiravano.

Partecipò all’ultima delle feste con gli amici della sua giovinezza, con una distaccata e dolcissima mestizia, aleggiante come un mezzo sorriso sul suo volto, tanto da destare la curiosità vivace di coloro che lo attorniavano e che attribuirono quel suo esserci senza esserci, ad un sottile rammarico per prossime nozze che l’avrebbero allontanato dai divertimenti mondani.
Iniziò così la grande avventura del figlio di Pietro Bernardone, ricchissimo mercante, e di Madonna Pica, dama d’origine provenzale; che, spogliatosi d’ogni bene terreno, rinunciò persino ai panni che portava, denudandosi davanti al Vescovo di Assisi, così accumulando infinite ricchezze in cielo e divenne, per tutti “Santo Francisci”.
Nudo volle restare come colui che ha scoperto l’essenza e la legge dell’uomo interiore e che si pone davanti alla terra ed al cielo come il primo uomo, e come il primo uomo è nudo.
Per tutto il periodo successivo alla conversione parlava di sé sotto il velame di allegorie, vagheggiando con gli amici più cari di un grande tesoro nascosto, scelse persino di abbigliarsi in modo simbolico, con panni di scarlatto, che presto per strada dismise per farne dono ad un povero, dopo aver venduto la mercanzia del padre e lasciato il ricavato alla disponibilità di un vecchio sacerdote in difficoltà.
Frate Francesco iniziò così la sua Grande Opera in compagnia di Madonna Povertà, di Fra’ Silenzio e di Sorella Pace, con indosso un camice di tela grezza, che volle da solo confezionarsi ispirandosi alla forma della stessa croce, cinto ai fianchi da una bianca cordicella a tre nodi e, come suo unico bagaglio, una sacca contenente gli strumenti dell’Arte Regia: la squadra, il compasso, la cazzuola, il filo a piombo, il mazzuolo, la riga e lo scalpello, a simboleggiare rispettivamente la rettitudine del pensiero, l’amore fraterno che tutto cementa, la rettitudine di giudizio, il lavoro indefesso e la sottomissione delle proprie imperfezioni spirituali al lavorio dello Spirito, che tutto trasformando, fa giungere alla perfezione. Il suo lavoro ermetico cominciò proprio attraverso la pratica e l’uso materiale degli strumenti a lui necessari per la ricostruzione di un Tempio quasi totalmente abbandonato, la chiesetta di S. Damiano, e tenuto in vita da un povero vecchio prete che, a stento, riusciva a viverci.

Poi fu la volta della chiesa di San Giorgio ed infine della Porziuncola.
Pietra su pietra, Francesco, ricostruì la Casa dell’Eterno, ed in tutta la sua vita di frate non interruppe mai l’attività costruttoria, Casa e Tempio ove doveva avvenire la sua ascesi ed il suo diretto e personale confronto con l’ineffabile divino mistero. Fu il Crocifisso di San Damiano e la Vergine stessa apparsagli alla Verna, a disvelargli quel Verbo che in Francesco più che mai divenne azione, esempio, opera, carità e amore.
Lavoro da costruttore, esempio di religiosità laica, liturgia del profondo fu quanto Francesco, al di fuori d’ogni schema, indicò agli uomini di tutti i tempi.
Ad ogni operaio dell’Arte lasciò in eredità il motto: “Pax et bonum”, che ancora oggi ogni compagno di Francesco rivolge a coloro che incontra quando dice: <<Il Signore ti dia pace>>, segno indelebile e profetico di un’umanità e di una nuova era, in cui avverrà il definitivo trionfo della luce sulle tenebre, della conoscenza sull’ignoranza, del benessere sulla sofferenza, dell’amore sull’egoismo.
Ogni maestro, infatti, ben sa che senza pace non si realizza alcuna piccola o grande opera.

“Pax et bonum” fu la parola sacra che Francesco consegnò ai suoi confratelli e compagni d’avventura e che, insieme al Cantico delle Creature, detto anche di Frate Sole, costituì il più grande messaggio di poesia alchemico-ermetica.
E sono lodi, cantici, parole musicate in rima – quello che ci lascia Francesco – preghiere e benedizioni che escono con l’impeto zampillante della poesia spontanea, dove l’atto creativo è insieme suono, parola ed immagine evocata. Il suo messaggio semplice e profondo gli uomini attenti ereditarono dalle labbra del “Poverello”, come diceva di se stesso, e come amava definirsi nelle sue lettere ai fratelli, “Piccolino”.
La pace, quella profondamente vera, è un bene prezioso che ogni umana creatura deve conquistare attraverso un lavoro costante e paziente; proprio come avviene per la pietra grezza che, attraverso un duro ed aspro esercizio, si leviga e si trasforma in cubo perfetto, partecipando così, nella perfezione della forma e della sostanza, all’armonica ed universale letizia della Grande Opera Universale.