Ritorna il tempo degli abbracci. Non per tutti, non subito. Però, intanto, la frase più surreale fra tutte le frasi possibili – almeno, fra quelle che un uomo di governo possa rivolgere ai cittadini – è stata pronunciata: «Potete abbracciarvi di nuovo». L’estate potrebbe insomma segnare la fine del distanziamento sociale in Italia. Ma rifare questo gesto così intimo, così umano – abbracciarsi – verrà naturale? Sarà semplice?
Per le folle dei meno prudenti lo è già: i giovani che si accalcano nelle notti festose di Londra o Barcellona, per salutare la fine dello stato di emergenza, i tifosi su di giri o i “rivoltosi” anti-coprifuoco che nelle nostre città sfidano il pericolo e i divieti. I temerari e i timorosi, i fatalisti e i guardinghi: il paesaggio umano della ripresa sarà diviso a metà. E la convivenza tra le parti non sarà facile.
Mi ha colpito il racconto di Caterina A., una giovane donna che – nel giorno delle riaperture a Roma – è salita su una metro, per raggiungere il centro: «Con un certo nervosismo», ha confessato. È passato così tanto tempo. Non era del tutto sicura – ha detto – di ricordarsi come si sta con gli altri. Ecco, buona domanda: ce lo ricordiamo davvero come si sta con gli altri?
L’impressione è quella di un marcato squilibrio: gli eccessi di slancio, gli eccessi di zelo. L’irruenza, goffa, talvolta prepotente, di chi rivuole indietro tutto. Il malessere di chi non riesce più a sentirsi a proprio agio nella folla. E un po’ se ne vergogna: una fotografa ventinovenne, Sandra B., ha raccontato al giornale, che non vedeva l’ora di tornare alla normalità. Ma quando le restrizioni si sono allentate, è stata travolta dall’ansia. Sentendosi sbagliata. E’ riuscita a vedere gli amici solo all’aperto, e mantenendo le distanze. Ha ricevuto la prima dose di vaccino, ma questo non basta a farla sentire sicura. Non è ipocondriaca, dice, e nonostante questo non se la sente di accettare l’invito a una festa. «Forse è come la sindrome di Stoccolma, tranne per il fatto che il nostro sequestratore è un virus».
Un sondaggio di un’associazione rileva che la metà degli italiani non riesce a tornare con serenità alle abitudini della vita pre-pandemica. Una sorta di apprensione cronica, che non è facile mitigare. Potresti andare a mangiare fuori, ma non te la senti. Potresti andare al cinema, ma il pensiero ti affatica. Vedi una folla radunata in piazza, e ti allontani. Potresti abbracciare un amico, ma i muscoli sono come contratti.
Due amiche che vivono in Sardegna, Maddalena B. e Jessica U., una volta vaccinate, si sono date un appuntamento in un parco pubblico, solo per abbracciarsi. È stato strano: appena hanno riavvicinato i corpi si sono messe a urlare di gioia. Ridevano e piangevano. A differenza di Maddalena e Jessica, Elena S., medico di base, non si sente ancora sicura: dice che sostare in questa terra di mezzo tra l’attenuarsi della crisi sanitaria e la sua effettiva fine si è rivelato più faticoso del previsto: «Quando scomparirà la sensazione che la folla abbia torto?»
La domanda non è trascurabile, ha a che vedere con le tappe di una lunga riabilitazione fisica ed emotiva, tappe differenti, non sincronizzabili, diverse per ciascuno. Non è lo stesso percorso per chi è stato toccato dal lutto, o dalla malattia, per chi ha perso il lavoro, per chi ha problemi finanziari, per chi vuole dimenticare tutto, in fretta; per chi, al contrario, non ci riesce. E si arena nell’esitazione, che rende innaturali le antiche abitudini. Vale perfino a scuola: l’esitazione scolastica, indica la resistenza al ritorno in classe da parte di molti studenti e delle rispettive famiglie. Che nell’anno del Covid hanno costruito nuovi modelli organizzativi. E ora è difficile romperli.
Abbiamo perso milioni di certezze: recuperarne, anche solo un paio, non è impresa da poco. E non gioverà il fronteggiarsi rabbioso di morali diverse, una guerra fra l’esercito dei gaudenti frettolosi e quello dei sobri attendisti.
Lo sforzo collettivo di ricostruzione della comunità dopo un trauma, dopo la Grande Interruzione, sarà un esercizio quotidiano di attenzione: rispettare – mentre cade qualche limite “visibile” – anche i limiti invisibili. Trovare un punto di equilibrio fra la tua forte voglia di vivere e la mia di vivere piano. Tra gli abbracci legalizzati e i soli legali, che non sono mai quelli imposti. E non smettere di chiederci, come la ragazza sulla metro per Roma, con opportuna perplessità, se sappiamo ancora stare con gli altri.