“Petros, ho preparato la colazione da due ore, non osavo svegliarti, lo sai che sono quasi le dieci del mattino?” il conte Lamberto vincendo la sua naturale riservatezza era entrato nella stanza di Petros e stava vicino al letto con lo sguardo di chi è preoccupato per qualcuno a cui vuole bene, fermò il braccio poco distante dalla spalla del giovane amico e chiuse a mano in un pugno semi aperto che non riuscì a trasformare, per pudore, nel tocco di una carezza.


“Sono sveglio, mi alzo immediatamente. Accidenti non devo dormire così, rimango rimbambito tutto il giorno. Sono pronto, grazie, arrivo subito.”
Una sequela di parole fatte a pezzi tra il dovere di tacere e la voglia di lasciarsi accogliere, di farsi comprendere, di farsi abbracciare.
“Sono pronto Lamberto, arrivo…”
“Ti aspetto di là. Ah, guarda che, come mammina provvida non sono un granché, la colazione è stata preparata con quello che ho trovato: se va bene…
Nello specchio del bagno chi c’era quella mattina?
Solo un paio di occhi che avrebbero bucato l’acciaio, persi dentro un volto che non riconosceva sé stesso.
Appena pronto si recò nel patio, dentro una scodella coperta con un piattino trovò una sorpresa: “Il budino di riso, col miele e le noci…ma, che c’è stata qui nonna a mia insaputa? Lamberto, come hai fatto? Io lo adoro e sono vent’anni che nessuno me lo prepara. Adesso mi dici come hai fatto…chi te l’ha detto?”
“Ma non è nulla, mi sono solo chiesto che cosa ti poteva piacere, in casa ho trovato queste poche cose e il gioco è fatto. Piano, che ti ingozzi! Beata gioventù…” rideva il vecchio conte.
“Tu che prendi la mattina per colazione, Lamberto? Hai già mangiato, scusa se mi sono svegliato tardi, scusami, non so che mi è preso…” stavolta mentiva, infatti, abbassò gli occhi sul cucchiaio pieno.
“Poco, normalmente mangio poco, e stamani nulla, digiuno… Che si fa, noi due, andiamo a vedere qualcosa di Yeats, che ne dici? Oppure un paio di monumenti megalitici?
“Facciamole tutt’e due le gite, però prima, un attimo, mi aspetti, faccio una telefonata a Marsiglia, vediamo come vanno le cose.”
” Signorina Gambettà – disse il primario alla capo infermiera – ha rintracciato i familiari della signora della stanza 420?”
“No, dottore, non è ancora stato possibile rintracciare nessuno. Si potrebbe chiedere al signore che è qui, so che è in contatto con il fidanzato della signora…”
“Niente affatto, non intendo parlare per mezzo di un interprete con quel… quell’individuo. Aspetteremo domani. Ma, la prego di risolvere al più presto la questione. Buon giorno”.
Paoletto era inquieto, anche Maja se n’era accorta, era distratto e irruente, e quelli che lei chiamava “i giochi” non gli riuscivano; parlare non era necessario, Maja lo abbracciava fortissimo senza riuscire con le sue braccia magre magre a completare la circonferenza del suo torace, per cui si aggrappava a lui, più che abbracciarlo, strusciando la faccina contro il suo petto, come fanno i gatti, e gli parlava, con la faccia vicinissima alla sua, soffiandogli negli occhi per farlo ridere. Paoletto si era ammorbidito in quel rapporto d’amore così unico ed inaspettato, ogni tanto sollevava da terra Maja, che al suo confronto sembrava uno scricciolo, e sembrava che la facesse volare per aria, sollevandole nello slancio tutti i vestiti. Il personale e i pazienti dell’Ospedale li osservavano mentre se ne stavano delle ore nel parco in quei loro colloqui pieni di silenzio e di suoni indecifrabili: c’era chi sorrideva e chi scuoteva la testa, ma a tutti quell’amore diceva qualcosa, che però non sapevano spiegare.
Maja aveva imparato a voler bene a Jo, le accarezzava una mano di nascosto dalle infermiere, osservando la porta guardinga, mentre Paoletto la sosteneva con il suo braccio. La sera, poi si salutavano, Paoletto per vegliare Jo, Maja per andare a sognare una strada lunghissima, bianca, piena di sole, che la portava lontano lontano lontano.
Qualcosa nell’aria quel giorno mise in allarme Paoletto, aveva sentito movimenti strani attorno a Jo, le macchine non venivano settate regolarmente e i medici avevano cambiato frequenza nel giro di visite, solo la signorina Gambettà, veniva sempre con il solito sorriso severo e con occhi pieni di una tristezza dolce, lo guardò, come se volesse chiedergli qualcosa, ma scosse la testa e non disse nulla.
Paoletto afferrò il cellulare che lo teneva in contatto con Petros, scrisse un messaggio in questi termini “VIENI SUBITO FORSE NECESSARIO” poi lo cancellò, turbato e inquieto non voleva allarmarlo invano, anche Maja sarebbe stata d’accordo. Mentre pensava a che cosa scrivere, Petros chiamò; apparentemente sembrava tranquillo ma a Paoletto non sfuggiva nulla, gli fece il segnale che doveva dire qualcosa, Petros chiuse e ricevette dopo un minuto un messaggio cosi: “FINITO TUO VIAGGIO VIENI, MEDICI MOLTO STRANI”
Ci mise in fondo dei punti esclamativi nella speranza di smorzare il tono…
Intanto il primario aveva tolto l’incarico alla signorina Gambettà di rintracciare i familiari e la sua efficientissima segretaria era riuscita a prendere contatto con Petros il quale, se non avesse ricevuto da meno di due minuti il messaggio di Paoletto, avrebbe creduto di parlare con la voce elettronica di un qualsiasi servizio di informazioni on line, tanto era suadente e formale e non avrebbe capito assolutamente nulla.
“Lamberto, perdonami, mi hanno chiamato dall’Ospedale, io… devo andare. …”
“Dobbiamo andare, Petros, partiamo. Vengo con te.”
Niente stupore, niente imbarazzo, niente false preoccupazioni, nessun disagio. Partirono.
Durante il viaggio furono pochissime le parole che si scambiarono, parole che non sarebbero state comunque, né utili né necessarie a stabilire tra loro una profonda comunicazione e condivisione. Petros ruppe il silenzio: “Forse ti chiederai perché tanto repentinamente sia voluto ripartire allora e altrettanto repentinamente sia voluto tornare questa volta, lasciando tutto a metà, sia l’una sia l’altra volta…
“Non ti ho chiesto nulla – cercò di intervenire Lamberto – non sono a caccia delle tue motivazioni, non è nelle mie mire. Se la mia presenza tende a generare in te un senso di colpa qualsiasi, mio dovere è lasciarti per non aggravarlo.”
“No, no, assolutamente no, Lamberto, ti sto facendo fare la parte della mia coscienza, sto pensando ad alta voce in tua presenza, senza avertelo chiesto, peraltro, e di questo dovrei scusarmi per l’ingratitudine e per la precipitazione di tutti questi giorni.”
“Se continui con questa solfa mi costringi davvero a lasciarti a te stesso. Poche chiacchiere, dimmi solo che ti angustia, saremo a Marsiglia tra due ore.”
“Mi angustia la sensazione di aver girato attorno alle cose senza colpirle se non con l’intelletto, mi sento come uno studente che abbia studiato come un pazzo l’ultima settimana prima degli esami ed abbia la testa talmente piena che si augura che le domande che gli faranno gli tolgano il tappo e possa finalmente liberarsi della pressione delle nozioni incamerate. Mi sento pieno e vuoto allo stesso tempo, come se avessi corso in tondo lungo un circuito che però a tratti mi pare del tutto lineare, evidente, eppure non ne scorgo la visione d’insieme. Lamberto, io ho cercato il Graal, ed esso mi è sfuggito perché, a differenza dei Cavalieri eletti che si misero alla sua cerca, non ne sono degno. Non lo conquisterò e non potrò per questo fare nulla per Joséphine. Avrei dovuto stare lì, senza sognarmi un’avventura impossibile, stare lì con lei, perché era questo che voleva la logica e il buon senso, considerare che lei era la mia regina, e che solo la regina potevo difendere e proteggere come Lancillotto, come Tristano. Il migliore del mondo volevo essere, un Ercole vittorioso, e adesso devo solo sperare di arrivare in tempo per rispondere ad una domanda della quale conosco già la natura e il tenore. Non solo devo affrontare da Titano, quale non sono, un’intera esistenza accanto ad una donna che vive attaccata ad una macchina oppure scegliere se devo trascorrerla nella memoria di lei, morta, e credimi, della trascendenza non mi importa nulla, della fede, del mistero, di nulla…
“Non sono i nostri disegni che devono adempiersi, Petros, ma i disegni di Dio, e non è la nostra volontà che esercitiamo, ma il riflesso della Sua su di noi. Nessuno ha compreso la tua scelta, in apparenza tu hai lasciato la donna che ami per seguire un sogno orgoglioso, qualcuno ti avrebbe persino accusato di insensibilità se non addirittura di presunzione. Ma come, avrebbero detto, se ne va alla ricerca di una cosa che non esiste? Forse hanno visto troppo film di Indiana Jones e pensano che basta impossessarsi di una coppa per versare un liquido miracoloso su una qualsiasi ferita che tutto si aggiusta e… vissero felici e contenti. No, Petros, ragazzo mio, hai fatto la scelta giusta, tuo malgrado, e ti spiego anche perché. Non sbaglia chi agisce per amore, e tu sei talmente pieno d’amore che non hai spazio nella tua anima per comprenderlo, hai lasciato lì Paoletto, l’incarnazione della forza e della terribilità della natura che si è fatta amore, per tuo tramite, per proteggere Jo, per ridarle la forza che le hanno strappato, colpita da una violenza cieca, nata da un puro istinto malvagio, che non tollerava la bellezza che lei incarnava; tu, la saggezza, che per amore è andata alla ricerca della verità, ad ogni costo, ed infine io, colui che tutto osserva, ed ama, tutto, con occhio equidistante. Non rispondere, taci adesso e concentrati, dobbiamo andare.”
Lamberto prese vigorosamente in mano l’intera gestione delle operazioni, persino in ospedale fu lui che si oppose con la forza della cortesia alle argomentazioni dello staff medico, fu sempre lui che al moto di stizza del primario che non tollerava la presenza di Paoletto in stanza né tanto meno il fatto che continuasse a toccare la fronte di Joséphine, con un sorriso ineffabile e in piena eleganza, ne smontò in meno un secondo l’arroganza. Incantò tutti, tutti infiammò con le sue parole, poi in un momento in cui ciascuno dei presenti si soffermava a parlare ed a riflettere con un interlocutore particolare, i medici tra loro, la signorina Gambettà con il primario, Petros con Paoletto e Maja da sola cantilenando distrattamente una nenia gitana, il Conte Lamberto Adoni Mira, si allontanò.
“Ebbene, Monsieur Mavros, la decisione spetta a lei. Ora noi la lasciamo, quando crede chiami pure, il dottor Steiner sarà a sua disposizione. Ah, dimenticavo, è bene che non vi sia nessuno in questa stanza, intendo dire, al momento opportuno…”
Paoletto grugnì e Maja gli mise la manina bianca in mezzo alle labbra per farlo smettere.
Solo, lo lasciarono solo, seduto come quei giorni che non ricordava neanche di aver passato lì, nella stessa posizione, impassibile, pietra di pietra, mentre, con uno di quegli artifici che la mente escogita prima di saltare il muro della follia, domandava a sé stesso perché non avesse nessuna domanda da farsi…
“Il Graal sono andato a cercare, ci pensi, Jo, il Graal per te, che stupido, ho girato mezzo mondo, ho messo insieme miliardi di conoscenze, ho ricostruito nella mia mente i massimi sistemi, i più grandi misteri mi si sono svelati, non ho perso un attimo del mio tempo, e adesso? Io conosco, tutto conosco, ma non ho compreso, che l’unica cosa che avrei dovuto fare era dirti ti amo, prima che tutto questo accadesse e poi mentre stavi qui, perché il Graal, amore mio, sei tu…
“No, sei tu” disse Joséphine aprendo gli occhi.