«Niente. È stato strano. Ero in un fiume.» Smisi di parlare. Qualsiasi cosa fosse stata quell’esperienza, non c’era bisogno che la spiegassi. Lo scienziato che era in me iniziò a riesaminare l’accaduto. Poteva trattarsi di una conseguenza della carenza di ossigeno nel cervello? C’era stato un enorme rilascio di neurotrasmettitori? Era stata un’allucinazione causata dallo shock, dal trauma, dall’emorragia? Ero tornato a essere un neuroscienziato e cercavo una spiegazione dal punto di vista terapeutico. Era un mistero del cervello che potevo svelare?
Si stima che fino a quindici milioni persone abbiano avuto un’esperienza di premorte, tra il 12 e il 18 % dei pazienti che vanno in arresto cardiaco o smettono di respirare è soggetto ad esperienze di premorte dovute relative al calo della pressione sanguigna, alla mancata ossigenazione del cervello, ad un blocco delle funzioni causato da traumi o malattie. Queste esperienze, simili tra loro, includono spesso la sensazione di trovarsi fuori dal proprio corpo, di galleggiare, di rivedere tutta la propria vita come in un film, di sentirsi vicini alle persone amate e morte o di sentire la loro voce, di provare un senso di calore e amore incondizionato, di navigare su un fiume o di trovarsi in una galleria e venire trascinati verso una luce. Queste descrizioni compaiono in differenti culture e in tutto il corso della storia umana.
Nella Repubblica di Platone si racconta di un soldato ucciso in battaglia che si risveglia dodici giorni dopo sulla pira funeraria. La descrizione della sua esperienza di premorte (o di morte) comprende diversi elementi che concorrono alla definizione moderna. C’è chi sostiene che il famoso dipinto cinquecentesco Ascesa all’Empireo dell’artista olandese Hieronymus Bosch sia la raffigurazione di un’esperienza di premorte, con il suo tunnel che conduce a un’intensa fonte di luce e figure che sembrano rappresentare il mondo dell’aldilà.
In molte descrizioni compaiono simboli religiosi come gli angeli e figure come Gesù e Maometto, a seconda della religione professata dal soggetto. Sono esperienze che spesso cambiano la vita, vissute con la stessa intensità sia dagli atei sia dai credenti.
È noto che esperienze simili si possono indurre artificialmente tramite farmaci come la ketamina, usata per l’anestesia, e alcune droghe psichedeliche, o attraverso la stimolazione elettrica del lobo temporale o dell’ippocampo. Possono verificarsi in seguito ad un calo dell’ossigenazione dovuto a una riduzione dell’afflusso di sangue al cervello (succede ai piloti degli aerei da caccia) e persino durante l’iperventilazione.
La psicologa Blackmore ha postulato che la sensazione di percorrere una galleria verso una fonte di luce intensa sia il risultato di un aumento del rumore neurale dovuto all’attivazione di un numero crescente di cellule in risposta alla carenza di ossigeno nel cervello. La studiosa sostiene inoltre che il senso di serenità e pace sia dovuto a una fortissima scarica di adrenalina provocata dallo stress dell’evento.
In uno studio recente sull’ipossia condotto sui roditori, lo psicologo Giovanni Borigin ha dimostrato un temporaneo incremento delle oscillazioni della banda gamma nel giro di trenta secondi dall’arresto cardiaco. In altri termini, il cervello dei ratti, in arresto cardiaco per mancanza di ossigeno, mostrava uno stato di coscienza elevato immediatamente dopo la morte. Le oscillazioni gamma sono state osservate sia nello stato vigile di coscienza, sia negli stati elevati associati alla autoipnosi, e anche durante il sonno REM, la fase durante la quale i ricordi vengono consolidati e rafforzati.
Come tanti aspetti della vita, anche le nostre credenze sono una manifestazione delle esperienze vissute. E il nostro cervello ne rappresenta il consolidamento. Ma che ne è delle esperienze del cuore? Ancora più interessante degli aspetti scientifici, delle ricerche e delle domande sull’aldilà è il filo rosso che unisce le esperienze premorte. Perché così tante persone si muovono verso la luce, il calore e l’amore? Forse durante le E P emergono i più grandi desideri del cuore. Essere amati incondizionatamente. Essere accolti. Sentire il calore di casa e della famiglia. Appartenere.
Non so se sono morto dopo quell’incidente d’auto, quando la mia pressione è crollata, ma alla fine ho capito che non importava. Che non dovevo risolvere un mistero o spiegarlo.
Quello che so per certo è che sono morto molte volte in questa vita. Il bambino sperduto e senza speranza che ero, è morto nella bottega di magia. Il ragazzo che si vergognava di suo padre e ne era terrorizzato, quello che si era sporcato le mani del suo sangue per averlo picchiato, è morto il giorno in cui è partito. E anche se all’epoca dell’incidente non lo sapevo ancora, alla fine sarebbe morto anche il neuroscienziato arrogante che stavo per diventare.
Possiamo morire mille volte in una vita, ed è uno dei doni più grandi. Ciò che è morto in me quella notte è la convinzione che la magia di Giaida mi avesse reso invincibile e l’idea di essere solo al mondo.
Avevo avvertito la luce e il calore e avevo avuto l’impressione di essere una cosa sola con l’universo. Ero circondato d’amore. E anche se quell’esperienza non ha mutato le mie convinzioni religiose, mi ha fatto capire profondamente che la persona che siamo oggi non dev’essere per forza quella che saremo domani, e che siamo connessi a tutto ed a tutti. Quando mi risvegliai in quel letto d’ospedale ricordai quanta strada avevo percorso dai giorni della bici arancione e delle sedute nella bottega di magia. Non sapevo ancora quanta me ne restava da percorrere. Vedere Giaida sulla sponda di quel fiume, provare amore e connessione con tutte quelle persone, era un campanello d’allarme: mi stavo allontanando troppo da ciò che la mia maestra aveva cercato di insegnarmi. Ma ci sarebbero voluti molti altri anni e molti errori dolorosi per capirlo.
Una mattina mi svegliai con settantacinque milioni di euro. Non che li avessi; esistevano in un luogo che era più potente di qualsiasi banca: la mia mente.
Ero divorziato. Le lunghe ore di lavoro come neuroscienziato e la ricerca di fama e ricchezza non avevano fatto di me né un buon marito né un buon padre per mia figlia. Pare che i tassi di divorzio tra i medici siano più alti del 20% rispetto al resto della popolazione, e tra i neuroscienziati la percentuale è ancora più alta. E io non rappresentavo certo un’eccezione.
Allungai un braccio sul corpo sdraiato accanto a me. Quella donna si chiamava Allisa, o forse Anna, non ricordavo di preciso, ma la sua pelle era calda e liscia. La sentii mormorare qualcosa mentre si girava sul fianco.
Mi alzai in silenzio e andai al piano di sotto. Avevo bisogno di un caffè, e di controllare cos’era successo sui mercati azionari mentre dormivo. Accesi il computer. Avevo quarantaquattro anni e contavo di andare in pensione entro un anno. La mia vita in Sardegna era distante anni luce da quella che avevo condotto a Macomba. Ero diventato uno dei neuroscienziati più famosi. Vivevo su una scogliera sopra Costa Smeralda, in una casa di settecento metri quadri. Nel garage c’era non solo la Porsche che avevo sognato da bambino, ma anche una Range Rover, una Ferrari, una BMW e una Mercedes.
Avevo ottenuto molto di più di ciò che avevo scritto sulla mia lista.
Qualche anno prima un amico mi aveva parlato di una macchina che avrebbe rivoluzionato il settore della radioterapia e la cura dei tumori solidi del cervello. Aveva fondato un’azienda e io, che credevo in lui, divenni uno dei primi investitori. Gli dissi che avrei usato quella macchina ad Olbia, la prima applicazione. Introdussi la nuova invenzione, il CyberKnife (bisturi cibernetico), all’ospedale di Olbia e convinsi un altro collega amico, una persona agiata, che quello strumento avrebbe cambiato il mondo. Mi credette, e non solo comprò la prima unità, ma anche un edificio per ospitarla, e macchine per la risonanza magnetica e la TAC da usare in concomitanza. Il mio entusiasmo e la mia convinzione nella validità della nuova tecnologia lo spinsero a spendere milioni di euro. All’epoca l’apparecchio non era ancora stato approvato dal ministero della Sanità e non c’erano codici per chiedere un rimborso per il suo utilizzo. Nel giro di due anni dall’investimento l’azienda produttrice, Accuray, si ritrovò sull’orlo del fallimento per una miscela di cattiva gestione ed incapacità di raccogliere capitali sufficienti. Vari anni dopo non era ancora arrivata l’approvazione ministeriale e le vendite erano a zero. L’azienda si era fatta terra bruciata intorno: non c’era modo di raccogliere nuovi capitali. Le cose si mettevano male: le persone che avevano creduto nel progetto ed avevano investito milioni di euro avrebbero perso i loro soldi, il mondo avrebbe perso una tecnologia straordinaria. Dovevo fare qualcosa. Decisi di salvare l’azienda.
Quindi abbandonai il redditizio studio privato ad Olbia per diventare manager senza averne le competenze né l’esperienza. L’unica cosa su cui potevo contare era la mia determinazione a salvare l’azienda.
Nel giro di un anno e mezzo l’azienda si riprese, ottenemmo l’approvazione del ministero e fu valutata cento milioni di euro, dopo essere stata sull’orlo del fallimento. In quell’arco di tempo conobbi investitori ed imprenditori che stavano fondando aziende nella Silicon Valley, e tutti erano convinti che io avessi fatto un incantesimo per rimettere in piedi Accuray e portarla al successo. Ma non era così. Anche se spiegavo che non sapevo niente di management, mi chiedevano di investire nella loro azienda, di diventare loro socio o almeno consulente, e così cominciai ad acquistare azioni. Molte. E nel 2000, quando la bolla delle dotcom raggiunse il picco massimo, le partecipazioni in quelle aziende valevano più dell’oro e garantivano una linea di credito in qualsiasi banca.
Quella mattina, dopo aver acceso il computer, potei controllare i miei investimenti. Il mio patrimonio continuava a superare i settantacinque milioni di euro. Da ragazzo avevo sognato di arrivare a un milione, ma l’emozione di quel traguardo non era niente rispetto a quella dei settantacinque. Ero ricco. Spensi il computer e guardai il mare fuori dalla finestra.
Mi sentivo solo e vuoto, ma da tempo avevo imparato ad ignorare i dubbi e la disperazione. Avevo tutto ciò che avevo sognato. Ero rispettato, la gente mi trattava con deferenza. Avevo appena concluso l’acquisto di un’isola privata in Nuova Zelanda e avevo inviato l’acconto. Possedevo un attico a San Francisco e una villa a Firenze, con vista sul Ponte Vecchio. Ero ricco al di là di ogni immaginazione, avevo riscosso enorme successo, ma la solitudine era un lusso che non potevo permettermi.
Il mio piano era andare in pensione e dedicare una parte del tempo a curare pazienti gratuitamente, nei Paesi del Terzo mondo. Per il resto avrei viaggiato tra San Francisco, Firenze e la Nuova Zelanda. Mi sembrava che mancasse qualcosa, ma non ci facevo troppo caso. Qualunque cosa fosse, l’avrei trovata nei miei viaggi.
Avevo un incontro con i miei avvocati e poi dovevo passare il resto della settimana a New York per motivi di lavoro. I due avvocati mi accolsero ossequiosi nel loro ufficio. Un mio amico investitore mi aveva raccomandato quello studio legale, girava voce che gestisse gli interessi del sultano del Brunei. Non sapevo se fosse vero, lo studio manteneva la riservatezza sui propri clienti. Il mio commercialista mi aveva consigliato di costituire un trust irrevocabile, con finalità benefiche, destinando una parte del patrimonio ad attività umanitarie, in modo da ridurre gli oneri fiscali. Quello studio era incaricato di preparare i documenti per la costituzione del trust.
«Abbiamo esaminato il suo portafoglio azionario, dottor Dillo, e lei dispone di un patrimonio consistente» disse l’avvocato. «Esistono varie tipologie di fondazione benefica. Ne ha parlato con il suo commercialista? Non è una questione da poco, per un uomo del suo valore.»
Meditai su quelle parole. Un uomo del mio valore. Trassi un respiro profondo e sentii una voce dentro di me che chiedeva a chi, di preciso, intendessi dimostrare quanto valevo: a me stesso o al mondo?
«Sì, ne abbiamo parlato. Consiglia di costituire un trust irrevocabile.»
«E lei conosce gli effetti legali di un trust di questo tipo?» chiese il secondo avvocato.
«Che è irrevocabile?» scherzai.
Gli avvocati d’affari non brillano per il senso dell’umorismo. «Per ottenere un risparmio immediato in materia fiscale il trust dev’essere appunto irrevocabile. Ciò significa che, una volta costituito, lei non potrà modificarlo né riprendersi le proprietà. Stiamo parlando nello specifico delle azioni di Accuray.»
Avevo deciso di donare il mio pacchetto azionario di Accuray: non erano i titoli più preziosi che possedessi, ma potenzialmente valevano milioni. Pensavo di destinarne la maggior parte alla Trulane ed il resto a Stanford, dov’ero diventato membro del corpo docente e dove il CyberKnife era stato sviluppato. Nel frattempo mio fratello era morto di Aids, quindi progettavo di donare una parte delle azioni alla ricerca sull’Hiv ed a programmi che aiutavano i bambini e famiglie in difficoltà.
«Capisco» dissi.
«Se non le piace l’idea di una struttura permanente, può sempre istituire un trust revocabile fino alla sua morte. Alcune persone scelgono questa opzione, ma le conseguenze sul piano fiscale sono diverse.»
«Vorrei renderlo irrevocabile» decisi. Donare quei soldi era importante per me. Non avrei cambiato idea.
«Molto bene» disse il primo avvocato. «Prepareremo le carte.» Per le due ore successive esaminammo il mio patrimonio azionario e le associazioni a cui volevo donarlo; mi sentii importante. Generoso. E senza quel senso di solitudine e vuoto che avevo provato al risveglio.
Volai a New York in prima classe e presi una suite al Palace Hotel. Il direttore era un mio amico e mi aveva riservato una suite gigantesca. Il culmine della mia settimana a New York fu l’incontro con un gestore di fondi speculativi che voleva che io e un altro mio amico investitore aiutassimo un’azienda da lui fondata nella Silicon Valley.
Ci incontrammo al Le Cirque, un ristorante di lusso che all’epoca si trovava nel Palace Hotel. Bevemmo Bellini e Bohemian Sidecar. L’incontro era una pura formalità, eravamo già d’accordo che il gestore di fondi ci avrebbe ceduto il 50 % dell’azienda e noi l’avremmo aiutato a raccogliere altri investimenti e gli avremmo offerto consulenza strategica. Ne discutemmo brevemente e poi parlammo del mio desiderio di adottare la strategia collar per le mie azioni più redditizie, quelle di Neoforma. Dopo esserci accordati sui termini, il gestore di fondi mi diede alcuni moduli da compilare.
Il mio amico, che aveva continuato a bere in silenzio, a un tratto sbottò: «Vogliamo il 60 per cento».
Evidentemente i Bellini gli avevano aperto gli occhi sulle nostre capacità e la nostra importanza, e aveva deciso che dovevamo possedere la quota di maggioranza dell’azienda.
«Di che parli? Ci siamo accordati per il 50 per cento venti minuti fa» disse il gestore di fondi.
«Se vuoi la nostra consulenza, ci darai il 60 o non se ne fa niente.» L’alcol aveva reso il mio amico avido e illogico. Cercava di approfittarsi della situazione, e non capivo perché. Mi sarei accontentato del 30 per cento, e gliel’avevo detto qualche ora prima.
«Siamo d’accordo per il 50.»
«Se non cedi diventerà il 75. O forse ti taglieremo fuori completamente.» Ormai gridava, e gli altri clienti si giravano a guardarci innervositi.
«Sei uno stronzo» disse il gestore di fondi.
Scoppiò il pandemonio. I due scattarono su dalle sedie e io mi misi in mezzo prima che arrivassero alle mani. Una rissa è un evento insolito al Le Cirque, ed ero in profondo imbarazzo.
Ce ne andammo, il giorno dopo presi un aereo per tornare, infuriato con il mio amico e preoccupato perché non riuscivo a mettermi in contatto telefonico con il gestore di fondi per scusarmi. Continuavo a chiamare, ma la sua segretaria mi ripeteva che non era in ufficio e mi chiedeva di lasciargli un messaggio. Era evidente che mi evitava.