Il cuore batte centomila volte al giorno, inviando 7500 litri di sangue attraverso un sistema di vasi sanguigni che, se distesi, coprirebbero più di 96.000 chilometri: oltre il doppio della circonferenza della Terra. Gli antichi Egizi credevano che il cuore – l’ib – sopravvivesse alla morte, e che nell’aldilà giudicasse l’essere umano che l’aveva posseduto. La parola egizia per felicità è awt-ib e significa letteralmente «ampiezza del cuore». L’infelicità è ab-ib, ovvero «un cuore tronco o alienato». In molte culture, il cuore è considerato la sede dell’anima, il luogo segreto in cui alberga lo spirito. Quando leggiamo della morte di un bambino ci si stringe il cuore. Quando veniamo rifiutati, quando ci vergogniamo, possiamo sentire il cuore contrarsi, come se si ripiegasse su sé stesso e diventasse più piccolo. Quando finisce un amore, diciamo di avere il cuore spezzato; se proviamo un grande amore od un intenso dolore il cuore può squarciarsi e non risanarsi mai più. E a volte non è solo una metafora: esiste una patologia che si chiama «sindrome del cuore spezzato».
Non è stata la perdita dei soldi a spezzarmi il cuore – anzi, ho trovato liberatorio perdere le ricchezze che avevo tanto desiderato –, ma la pressione accumulata nel tenerlo chiuso così a lungo. «Ciò che credi di desiderare non è sempre ciò che è meglio per te» aveva detto Giaida. Avevo inseguito il traguardo sbagliato, e un cuore ignorato troppo a lungo fa sempre sentire la sua voce.
Mi tornò in mente la promessa che avevo fatto a Giaida: un giorno avrei insegnato questa magia a qualcun altro. Non sapevo bene come sarebbe successo, ma divenne il nucleo della mia pratica di visualizzazione serale. A volte mi vedevo in camice bianco nell’atto di abbracciare un paziente, altre volte ero su un palco, oppure mi immaginavo a discorrere con grandi maestri spirituali. Pur essendo ateo da sempre, spesso pensavo alla mia esperienza con Giaida ed a ciò che mi era successo dopo l’incidente d’auto e scoprivo che è possibile avere una mente aperta, libera da dogmi, ed al contempo essere convinti che ci sono aspetti della vita che non si possono spiegare. Per molti versi è un altro dei doni di Giaida: accettare il fatto di non aver bisogno di una risposta definitiva.
Sento che siamo tutti connessi: quando guardo un’altra persona vedo me stesso. Vedo le mie debolezze, i miei difetti e la mia fragilità. Vedo la forza dello spirito umano e quella dell’universo. So, nel profondo di me, che l’amore è il collante che ci unisce.
Mi è sempre importato del prossimo, e come terapeuta tengo molto ai miei pazienti. Ma l’atto di aprire intenzionalmente il cuore mi provocava un dolore intenso, a volte intollerabile, che in certi momenti non mi permetteva di essere presente come avrei voluto. Ma quando apro davvero il cuore come mi ha insegnato Giaida, cambia il mio modo di reagire al dolore. Non sento il bisogno di sfuggirlo, ma di restare in sua presenza. Ed è questo a mettermi in connessione autentica con me stesso e con gli altri. Ha rivoluzionato il mio rapporto con i pazienti: mi concedo più tempo per ascoltare e cerco di aprirmi a ciascuno di loro. Ascolto i sintomi e poi il loro cuore: non con lo stetoscopio, ma con il mio cuore.
Dalla mia esperienza ho imparato che bastava ascoltare i pazienti, dare loro il mio tempo e la mia attenzione, perché si sentissero meglio. Lasciavo che mi raccontassero la loro storia, i loro problemi, i successi e le sofferenze. Ed in molti casi questo alleviava il loro dolore più di qualsiasi farmaco che potessi prescrivere, a volte anche più dell’intervento chirurgico.
Avevo iniziato a liberarmi dalla storia che aveva contraddistinto la mia vita. Mi ero creato un’identità incentrata sul fatto che ero povero, e sarei rimasto tale, nonostante le ricchezze accumulate. Nella autoipnosi quotidiana aprivo il cuore a mia madre e mio padre e trovavo la forza di perdonarli. Aprivo il cuore al ragazzo che ero e trovavo la compassione. E lo aprivo anche a tutti i miei sbagli ed al modo stupido in cui avevo cercato di dimostrare il mio valore al mondo, così trovavo l’umiltà. Ho capito che non ero l’unico al mondo ad aver patito la fame, ad aver avuto paura, ad aver conosciuto la solitudine, ad essersi sentito isolato, diverso. Il mio cuore, una volta aperto, riusciva a connettersi con tutti gli altri cuori che incontrava.
È stato estenuante, bello e strano allo stesso tempo.
Tutti abbiamo questo dono, la capacità di connetterci con gli altri. Attraverso la musica, l’arte, la poesia, anche solo ascoltandoci. I nostri cuori si parlano in un milione di modi.
Vivere con il cuore aperto può essere doloroso, ma non quanto vivere con il cuore chiuso. Mi ritrovai a pensare spesso a Giaida. Avrei voluto poterle fare da adulto la stessa domanda che le avevo rivolto da bambino: perché? Cosa l’aveva spinta a cercare un dialogo con me, quando tante persone non cercano il dialogo con nessuno? Giaida non era ricca, aveva i suoi problemi, ma il suo cuore era aperto, e vedendomi in difficoltà era intervenuta. Mi domandai: com’è possibile che la gente che ha tanto, faccia così poco per chi soffre? E come mai alcune persone che hanno pochissimo lo offrono a chi è ancora meno fortunato di loro? Perché alcuni, come Giaida, si fanno in quattro per aiutare il prossimo mentre altri voltano le spalle a chi soffre?
Non erano riflessioni filosofiche, astratte. Iniziai a dedicarmi con costanza alla ricerca medica ed a collaborare con altri studiosi che lavoravano in ambiti simili. Avevo indagato i misteri del cervello ed era tempo di dedicare altrettanto rigore accademico e disciplina scientifica all’esplorazione dei segreti del cuore.
Da allora ho imparato che la compassione è un istinto, forse il più innato che abbiamo. Le ricerche più recenti mostrano che anche gli animali possono impegnarsi per aiutare un altro individuo della specie, se vedono che soffre. Noi umani abbiamo un istinto compassionevole ancora più marcato; nel cervello è insito il desiderio di aiutarci a vicenda. Lo si vede all’opera già nei bambini piccoli.
C’è una parte del cervello che si chiama sostanza grigia centrale, la cui connessione alla corteccia orbito frontale è responsabile della maggioranza dei comportamenti di cura. Quando vediamo una persona che sta male, questa parte del cervello si attiva: il che significa che siamo programmati per prenderci cura degli altri e aiutarli nel momento del bisogno. Allo stesso modo, quando doniamo qualcosa, nel cervello si accendono i centri del piacere e della ricompensa, più ancora di quando siamo noi a ricevere un regalo.
Molti fraintendono Darwin, sostenendo che la sopravvivenza del più adatto significhi la sopravvivenza del più forte, in realtà a sopravvivere sono gli individui più gentili e pronti a collaborare, il loro operato assicura la prosecuzione della specie nel lungo periodo. Ci siamo evoluti per cooperare, per allevare la prole, per prosperare insieme a beneficio di tutti.
Quando il nostro cervello collabora con il cuore siamo più felici, più sani e più portati ad esprimere amore e premura per l’altro. Lo sapevo per intuito, ma sentivo il bisogno di una conferma scientifica. È questa la motivazione che mi ha spinto a compiere ricerche sull’altruismo. Volevo studiare il modo in cui questi comportamenti si sono evoluti, ma anche il loro effetto sul cervello e sulla nostra salute.
I primi dati emersi dalle ricerche mostravano chiari effetti positivi. A livello personale li avevo già sperimentati, ma volevo indagare la possibilità di migliorare la vita delle persone attraverso quelle conoscenze.
Chiamammo quell’iniziativa Project Compassion (progetto compassione). All’inizio finanziavo personalmente la ricerca. Durante uno dei nostri incontri qualcuno aveva fatto il nome del Dalai Lama, che aveva incoraggiato uno dei centri più attivi in questo campo a studiare gli effetti della autoipnosi e della compassione sul cervello. Qualche giorno dopo, mentre camminavo nel campus di Stanford, pensai: Non sarebbe fantastico che il Dalai Lama venisse a Stanford e incontrasse me e i miei colleghi per parlare della compassione? Era strano che mi fosse venuta quell’idea, dato che non ero buddista e non sapevo granché sul Dalai Lama, a parte che era stato a Stanford nel 2005 per parlare di dipendenze, desiderio e compassione. Eppure non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea di farlo tornare. Scoprii che la visita del 2005 era dovuta al fatto che la moglie del preside di medicina era una sua ammiratrice. La donna mi raccontò che era stato uno dei docenti del Tibetan Studies Initiative di Stanford a prendere i primi contatti. Quando lo incontrai mi incoraggiò molto. Mi fece conoscere l’interprete del Dalai Lama, Thupten Jinpa, un ex monaco che lavorava con Sua Santità da quasi venticinque anni. Parlammo al telefono e lui mi organizzò un incontro con il Dalai Lama nel corso della sua visita a Seattle.
Avevo ottenuto quel risultato con poco sforzo.
Vari rappresentanti di Stanford mi accompagnarono a Seattle: un docente di medicina, il direttore dell’Istituto di neuroscienze, il professore di studi tibetani che aveva organizzato il primo contatto. Eravamo un gruppo nutrito, più di quanto potessi prevedere. Incontrammo il Dalai Lama nella sua stanza d’albergo. Dopo le presentazioni, gli parlai del mio interesse per la compassione e della mia formazione come terapeuta e neuroscienziato, dei progetti che avevamo avviato e del mio desiderio che venisse a Stanford. Mi fece alcune domande perspicaci sulle nostre ricerche e sulla scienza della compassione. Quando gli ebbi risposto, mi guardò e sorrise. «Certo che verrò.»
Un monaco ci portò l’agenda in cui cercare una data libera per programmare la visita. D’un tratto il Dalai Lama iniziò una conversazione animata, in tibetano, con l’interprete. Proseguirono per un po’, e noi di Stanford restammo in silenzio. L’avevo offeso in qualche modo? L’avevo involontariamente fatto arrabbiare? Cosa si stavano dicendo? Diventai nervoso e cominciai a sudare.
La conversazione terminò bruscamente e l’interprete, Jinpa, mi disse: «Giovanni, Sua Santità è così colpito dalla vostra iniziativa e dal vostro impegno che desidera dare un contributo personale al vostro lavoro».
Quando mi comunicò la cifra restai a bocca aperta. Era un evento straordinario, senza precedenti. Il Dalai Lama può disporre di fondi discrezionali, che di solito destina a cause o iniziative tibetane. In passato aveva donato cifre più modeste a varie cause, ma quella donazione si rivelò la più cospicua che avesse fatto a un’iniziativa non legata al Tibet. Al termine dell’incontro tutti avevamo l’impressione di galleggiare su una nuvola. Non solo Sua Santità aveva accettato di venire a Stanford, ma era diventato un nostro benefattore. Incredibile. In seguito, una persona presente all’incontro mi disse che la reazione del Dalai Lama aveva indotto anche lui a fare una donazione alla mia causa. Una settimana dopo un ingegnere di Google che avevo conosciuto e si era mostrato interessato al mio lavoro chiamò per dire che aveva saputo dell’incontro. Era così impressionato dalla donazione del Dalai Lama che voleva contribuire anche lui. Alla fine queste tre persone donarono cifre ingenti. Quello che era iniziato come un progetto informale finì sotto l’egida del preside di medicina, con il sostegno del direttore dell’Istituto di neuroscienze e del preside del mio dipartimento.

Il volto di Dio
Circa venticinque secoli fa Ippocrate, il padre della medicina, richiedeva ai suoi allievi di pronunciare un giuramento, promettendo di attenersi ai principi etici più elevati nella pratica della professione. Molti ricordano l’espressione latina primum non nocere, «anzitutto non nuocere», uno dei principi fondanti della medicina. Da vent’anni, il giuramento di Ippocrate si pronuncia appena prima dell’inizio dell’anno accademico, nel corso di una cerimonia durante la quale gli studenti ricevono il camice. In tale occasione una figura che incarna gli ideali più alti della medicina tiene un discorso motivazionale.
Trent’anni dopo la mia laurea alla Trulane di Cagliari, il preside del dipartimento che mi aveva ammesso senza un diploma di primo livello e con la media dei voti più bassa di tutti i candidati, mi telefonò, per chiedermi di tenere quel discorso. Le emozioni che provai in quell’occasione sono indicibili. Io, Giovanni Dillo, il pessimo studente a cui era stato detto di non fare domanda al corso, perché sarebbe stata «una perdita di tempo per tutti», avrei parlato alla cerimonia del camice bianco nell’ateneo in cui mi ero laureato, presentandomi agli aspiranti come un modello da imitare?
Mi stupisco spesso delle strade lungo le quali la vita mi ha condotto. Unire i puntini della vita a posteriori è facile. Ben più difficile è aver fede che i puntini si uniranno a formare un’immagine bellissima, mentre ci si dibatte nelle difficoltà. I successi come gli insuccessi, che non avrei saputo prevedere, mi hanno reso un marito migliore, un padre migliore, un terapeuta migliore, una persona migliore.
La magia di Giaida mi ha fatto capire che avevo il diritto di essere me stesso, con o senza soldi, e che è impossibile tenere la vita sotto controllo. Avevo inseguito una chimera, e lasciarla andar via mi aveva fruttato i doni più preziosi in assoluto: la lucidità di pensiero, la fermezza delle intenzioni, la libertà.
Come per il Dalai Lama, anche per me la gentilezza è una religione. Una religione che non ha bisogno di un dio pronto a giudicare, di testi sacri dogmatici; che non consente a nessuno di sentirsi superiore agli altri, anzi, ci spinge a comprendere che siamo tutti uguali.
Mentre mi preparavo a tenere quel discorso all’università mi chiedevo cosa avrei potuto dire agli studenti che iniziavano il cammino verso la professione medica, quale messaggio avrei potuto trasmettere per accompagnarli nella loro carriera. Pensai a Giaida ed a ciò che mi aveva insegnato. Pensai all’alfabeto del cuore che mi aveva aiutato tanto e che recitavo ogni giorno. Pensai ai pazienti che avevo imparato ad amare. E pensai alla morte, al poco tempo che abbiamo in questo mondo.
Ognuno di noi ha una storia, e in ogni storia ci sono momenti tristi e dolorosi. Possiamo scegliere di vedere le persone di fronte a noi sia per quello che sono sia per quello che possono diventare. Giaida ha visto un bambino impaurito e solo, con il cuore ferito. Ciascuno di noi ha qualche ferita, e ciascuno è in grado di guarire. Giaida mi ha aiutato a guarire, insegnandomi che dare amore è sempre possibile. Ogni sorriso rivolto ad un estraneo può essere un dono. Ogni volta che scegliamo di non giudicare un altro essere è un dono.
Le persone anelano a comprendere qual è il loro posto nel mondo, a essere felici e soddisfatte, e cercano un modo che le aiuti a trasformarsi. Giaida mi ha insegnato un metodo che ha funzionato, e forse è stata la sua bravura a farlo funzionare così bene. Altre persone hanno trovato modi diversi per calmare la mente e aprire il cuore.
Sua Santità il Dalai Lama dice: «L’amore e la compassione sono necessari: senza di essi l’umanità non può sopravvivere». Come potevo condividere quei valori così importanti, nella medicina come nella vita, con un gruppo di ragazzi in procinto di imbarcarsi in una carriera al servizio del prossimo?
Salii sul palco dell’auditorium della Trulane e guardai i milleduecento studenti, i professori e le famiglie. Osservai i volti dei ragazzi, pieni di aspettativa. Ricordai il giorno in cui avevo assistito da studente alla cerimonia del camice, tanti anni prima, ma non rammentavo chi avesse tenuto il discorso e cosa avesse detto. Ricordavo solo di aver ricevuto un camice e di aver pronunciato il giuramento.
Iniziai a parlare, sopraffatto dall’emozione. Raccontai il mio percorso di vita e parlai del terapeuta che mi aveva ispirato in quarta elementare e della donna che aveva creduto in me, Giaida. Dissi agli studenti che ciascuno di loro aveva il potere di cambiare in meglio la vita degli altri, e non solo quella dei pazienti. A volte basta un sorriso o una parola buona. Dissi loro che la medicina era cambiata, ma restava una professione nobile. Poi parlai dell’alfabeto del cuore ed analizzai ciascuna lettera ed il suo significato. Quando pronunciai la parola «amore» mi si incrinò la voce. Avevo le lacrime agli occhi.
«Non esiste una vita perfetta e non si può sfuggire alle sofferenze. Ma non si può sfuggire neanche alla bellissima sincronia del cuore.» Mi interruppi per un momento, preparandomi a concludere il discorso. Scorsi un ragazzo nel pubblico e mi sembrò di vedere me stesso anni prima.
«Oggi, pronunciando il giuramento, avete scelto una strada che vi condurrà nelle valli più profonde ed oscure della vita. Vedrete il potere distruttivo delle malattie e dei traumi, e le sofferenze che un essere umano è capace di infliggere a un altro ed a sé stesso. Ma questa strada vi porterà anche sui picchi più alti della vita: vedrete dimostrazioni di forza che credevate impossibili, guarigioni inspiegabili, e il potere curativo della compassione e della gentilezza. Sarà come vedere il volto di Dio.»
Ero così concentrato su quelle ultime parole che non stavo più guardando la platea. Al termine mi accorsi che molte persone piangevano. Mi guardai intorno: piangevano anche i miei colleghi sul palco. E anch’io avevo le guance rigate di lacrime. All’improvviso tutti si alzarono in piedi per l’ovazione. Non applaudivano solo me e il mio percorso, ma il percorso che conduce tutti noi ad una maggiore comprensione, a una sempre maggiore umanità.
Molti vennero davanti al palco, mi ringraziarono, piansero, mi dissero che le mie parole avevano aperto il loro cuore. Pensai alla mia vita e a Giaida. Compresi di nuovo il potere dei suoi insegnamenti e della sua magia. È un potere che vive in ciascuno di noi e aspetta solo di essere liberato. È il dono che possiamo farci l’un l’altro.
Uscii dall’auditorium e mi sentii scaldare il viso dal sole. Mi fermai, chiusi gli occhi e mi consentii di essere e basta.
Andava tutto bene.
Stavo bene.
La mia avventura alla scoperta dei misteri del cervello e dei segreti del cuore è iniziata in una bottega di magia, ma per accedervi basta guardare nella nostra mente e nel nostro cuore.
Ora tocca a voi esercitarvi e trasmettere questi insegnamenti agli altri. Il cuore ed il cervello, uniti, possono creare la magia più straordinaria al mondo, che non c’entra niente con i giochi di prestigio. È la magia più grande che Giaida potesse insegnarmi, e che io possa trasmettere a voi.