Arrivai a Newport Beach con un pessimo presentimento su quell’affare e dovetti aspettare un mese e mezzo prima che l’uomo si decidesse a richiamarmi. Ma era troppo tardi. Il mercato azionario stava crollando e serpeggiava il panico. Il valore delle azioni scendeva, la gente perdeva milioni: la bolla delle dot-com, come sarebbe stata chiamata in seguito, era scoppiata.
Il valore del mio patrimonio era precipitato, e gli estratti conto non facevano che confermare ciò che sapevo già: i settantacinque milioni erano sfumati. Non solo: dal momento che le linee di credito si basavano sul valore dei titoli ero anche in debito di vari milioni di euro, di fatto in bancarotta.
L’unica proprietà tangibile che mi restasse, il solo titolo che valesse ancora la carta su cui era stampato, era l’azienda che avevo salvato dal fallimento e ricostruito da zero: Accuray. Ma Accuray era chiusa in un trust irrevocabile.
Non valevo assolutamente niente. Meno di zero.
I miei amici sparirono alla stessa velocità degli zeri sul conto in banca.
Niente più cene gratis, niente più tavoli riservati nei migliori ristoranti. Seguirono due anni faticosi, e dopo aver venduto l’attico, le macchine, la villa, e aver disdetto l’acquisto dell’isola, ero ancora indebitato. Mese dopo mese vedevo sparire tutto ciò per cui avevo lavorato così tanto. I soldi, il potere, il successo che avevo sognato e visualizzato erano scomparsi con lo scoppio della bolla.
«Non preoccuparti» mi disse uno dei pochi amici rimasti. «Puoi ancora usare il tocco magico di Dillo.»
Era davvero magia? I successi delle startup in cui avevo investito sembravano dovuti alla fortuna. Mi ero ubriacato di soldi e di potere. Ma ero un neuroscienziato, non un esperto di tecnologia. Ero abbastanza bravo ad investire, e molto bravo a far succedere le cose ed a convincere la gente. Sapevo lavorare sodo e concentrarmi, pensare in grande e portare gli altri dalla mia parte, e tutto ciò mi aveva fruttato quel successo straordinario. Ma la mia vera forza stava nel fatto che ero un terapeuta, non un imprenditore.
Piangevo la perdita della mia fortuna e del mio stile di vita, e quando me ne andai dalla casa di Newport Beach mi sentivo vuoto, smarrito e più solo che mai. Avevo perduto il mio matrimonio. Per mia figlia ero un padre assente. Non mi veniva in mente una sola persona a cui telefonare per sfogarmi. Per inseguire i beni materiali avevo trascurato le relazioni. Ed il giorno in cui avevo più bisogno di qualcuno non c’era nessuno.
Mentre mi preparavo per il trasloco trovai la vecchia scatola delle cose speciali in fondo a un armadio a muro. Non l’avevo più aperta. Tirai fuori il quaderno e rilessi la lista di cose che volevo dalla vita a dodici anni. C’erano altre pagine scritte: gli insegnamenti di Giaida, strane frasi che mi aveva detto e che all’epoca non avevo capito. Ogni voce della mia lista era diventata realtà, ma adesso era sparito tutto. Ero pessimo.
Avevo suddiviso le sei settimane trascorse con Giaida in quattro parti. Rilassare il corpo. Domare la mente. Aprire il cuore. Enunciare l’intenzione. Sopra il titolo della terza sezione avevo scritto bussola morale seguito da un punto interrogativo, e la frase Ciò che credi di desiderare non è sempre ciò che è meglio per te accompagnata da tre punti interrogativi.
Mi sedetti a terra davanti all’armadio nella casa quasi vuota e, per la prima volta dopo molto tempo, trassi tre respiri profondi ed iniziai a rilassare ogni parte del corpo. Mi concentrai sulla respirazione: dentro e fuori, inspirare ed espirare. Sentii che la mente si calmava. Poi mi sforzai di aprire il cuore. Inviai amore al ragazzo che ero stato e all’uomo che ero diventato. Aprii il cuore alla verità che non ero l’unico ad aver perso qualcosa, e mi sentii vicino a tutti coloro che faticavano a trovare da mangiare, a mantenere una casa, a prendersi cura dei loro figli. E poi visualizzai il finestrino del futuro, e notai che era appannato. Non vedevo cosa ci fosse dall’altra parte. Per la prima volta da quando avevo conosciuto Giaida non sapevo cosa volevo ottenere e chi volevo diventare. Non sapevo cosa avrei voluto vedere oltre quel vetro.
Fu allora che capii cosa dovevo fare. Dovevo tornare alla bottega di magia a Macomba. Forse Nino era ancora lì. Forse Giaida era ancora viva. Mi infilai il quaderno sottobraccio e presi le chiavi dell’unica macchina che mi restava. Avevo tenuto la Porsche. Era la prima che avevo sognato di possedere e l’avevo pagata in contanti. Macomba era a poche ore da lì. Potevo arrivare prima del tramonto.
Se la mia vita fosse stata un film, sarei arrivato a Macomba ed avrei trovato Giaida ad aspettarmi alla bottega di magia. Avrebbe avuto novant’anni, ma mi sarebbe apparsa più saggia che fragile. Avrebbe già saputo del mio arrivo, per premonizione, e mi avrebbe detto la parola giusta per farmi comprendere dove avevo sbagliato.
Ma la vita non è un film, e il Magic Shop non c’era più. Tutti gli esercizi commerciali di quella strada erano spariti. Chiamai il numero delle info telefoniche e chiesi l’elenco dei negozi di magia a Macomba. Non ce n’era nessuno. C’era un prestigiatore nella vicina Palmada che si esibiva alle feste di compleanno dei bambini: lo contattai.
«Salve, cerco una bottega di magia che si trovava a Macomba» dissi. «Il proprietario si chiamava Nino. Non so il cognome.» Ci fu un momento di silenzio all’altro capo.
«Cerca un prestigiatore?» chiese l’uomo.
«In realtà sto tentando di rintracciare un uomo di nome Nino. Era il titolare di Macomba.»
«Qui non c’è nessun Nino. Temo che lei abbia sbagliato numero.»
Mi sforzai di tenere a bada l’irritazione. «Per caso lei è mai stato in una bottega di magia a Macomba?»
«Non ce ne sono lì» rispose, un po’ seccato.
«Alla fine degli anni Sessanta ce n’era una. Mi chiedevo se lei la conoscesse o se sapesse cosa ne sia stato del proprietario.»
«Be’, sono nato nel 1973.»
Sospirai. Niente da fare. «Grazie lo stesso, scusi il disturbo.»
«Sa, ricordo di aver sentito parlare di una bottega di magia a Macomba che ha chiuso negli anni Ottanta. Penso che quel tizio producesse mazzi di carte. Era diventato famoso, non ricordo come si chiamasse. Forse può provare al Magic Castle. Parecchia gente del settore di una certa età bazzica da quelle parti.»
Lo ringraziai di nuovo e chiusi la telefonata.
Uscii a piedi e mi accorsi che stavo facendo la stessa strada che quell’estate avevo percorso in bici ogni giorno per andare e tornare dalla bottega di magia. Era tutto diverso. Macomba era diventata quasi una città, non più un paesino isolato. Passai davanti al campo dove avevo incontrato i bulli e vidi bambini che giocavano. La chiesa lì accanto, identica a come la ricordavo. Alcune cose non erano cambiate. Proseguii fino all’edificio in cui vivevamo quell’estate. Era rimasto più o meno uguale, solo più vecchio e ancora più decrepito. Il nostro appartamento era al piano terra, e sulla veranda c’era una bicicletta, proprio dove tenevo la mia trent’anni prima. Svoltai l’angolo verso la finestra della stanza in cui dormivo con mio fratello. Mi girai e vidi l’albero su cui mi arrampicavo per sfuggire ai litigi dei miei genitori, o per starmene per i fatti miei; altre volte per piangere perché mi sentivo solo. Camminai verso un campo pieno di sterpaglie e mi guardai intorno. Per qualche secondo rimasi in contemplazione, mi sentii di nuovo bambino, quel bambino che non vedeva l’ora di saltare in sella alla bici per andare da Giaida. Seguii il sentiero, lo stesso che percorrevo da piccolo. All’improvviso un clacson mi riportò bruscamente alla realtà.
Mi resi conto che non sapevo cosa cercassi, né perché fossi tornato a Macomba. Giaida non viveva lì, sempre che fosse ancora viva. Non conoscevo neppure il suo cognome. Mi riavviai alla macchina con l’impressione che mi fosse sfuggito qualcosa di importante. Perché ero andato lì? Cosa cercavo davvero?
Sul sedile del passeggero della mia auto c’era il vecchio quaderno. Lo presi e iniziai a leggere gli appunti su ciò che mi aveva detto Giaida. Bussola del cuore. Quelle parole erano sottolineate. Non ricordavo che lo fossero poche ore prima, ma evidentemente non ci avevo fatto caso. Poi c’erano alcune stelle che avevo disegnato in inchiostro rosso lì accanto. Sfogliai il resto delle pagine: nient’altro era sottolineato, non c’erano altre stelle. Perché proprio quella frase? Chiusi gli occhi e cercai di ricordare quando Giaida l’avesse pronunciata. Era il giorno del litigio. L’unico giorno in cui ero arrivato in ritardo. Il giorno in cui Giaida mi aveva parlato dell’importanza di aprire il cuore.
Ciascuno di noi vive situazioni che causano dolore. Io le chiamo ferite del cuore. Se le ignori, non guariscono. Ma a volte, quando il cuore è ferito, è allora che si apre. Spesso sono le ferite del cuore a offrirci la migliore opportunità di crescere.
Riaprii gli occhi. Ricordai che quel giorno, mentre stavo andando, Giaida mi aveva seguito nel parcheggio. «Sai cos’è una bussola?» mi aveva chiesto.
«Certo, è un aggeggio che ti dice da quale parte devi andare.»
«Il tuo cuore è una bussola, ed è il tuo dono più grande, Giovanni. Se mai dovessi sentirti perso, ti basterà aprirlo e ti guiderà nella direzione giusta.»
Lessi l’altra frase scritta in cima alla pagina. Ciò che credi di desiderare non è sempre ciò che è meglio per te. Giaida mi aveva avvertito. Mi aveva detto di aprire il cuore prima di visualizzare ciò che volevo, e di usare quel potere con saggezza. Non l’avevo fatto. Possibile che avessi sbagliato tutto? Pensavo di volere soldi, li avevo ottenuti e non erano mai abbastanza. Era come se lo spettacolo di magia iniziato anni prima si fosse interrotto. Avevo continuato a tirar fuori un trucco dopo l’altro, perché gli applausi non si fermassero, lo show andava avanti, i milioni si accumulavano. Ed ero solo, spaventato e sperduto, come il giorno in cui avevo conosciuto Giaida. Se dovevo essere sincero, una parte di me si sentiva sollevata ora che i soldi se n’erano andati.
La mattina dopo mi svegliò il telefono. Erano le dieci passate. Non c’erano donne nel mio letto e non dovevo alzarmi presto per controllare il mercato azionario. Mi ero addormentato, visualizzando il mio cuore che si apriva ed avevo chiesto alla bussola di portarmi nella direzione giusta. Poi avevo dormito benissimo, come non mi capitava più da anni.
Risposi al telefono: era uno dei miei avvocati e diceva di avere grandi notizie per me.
«Che succede?» chiesi.
«Stavo ricontrollando i documenti del tuo trust e mi sono accorto che non è mai stato formalizzato, dunque la procedura non è completa. Non so per quale motivo non sia stato fatto, e non trovo nelle carte una motivazione specifica. Si è trattato semplicemente di un errore. La tua intenzione è espressa in chiaro nei documenti e sono elencati i pacchetti azionari da destinare a ciascuna associazione benefica. Ho controllato con uno dei nostri soci anziani e mi ha detto che, alla luce di queste circostanze, non sei tenuto a finanziare il trust né a completare i documenti.»
Mi alzai a sedere sul letto. La magia aveva funzionato come quella prima volta, quando i soldi dell’affitto erano arrivati all’ultimo istante?
«Giovanni, sei ancora lì? Hai sentito cos’ho detto?»
«Ti ho sentito. Grazie di aver chiamato.»
«Be’, come vuoi che proceda?» mi domandò, sorpreso che non mi fossi messo a saltare di gioia come se avessi vinto la lotteria. Non avevo idea di quanto potessero valere le azioni nel trust, ma sapevo di essere di nuovo milionario. Senza bisogno di alzare un dito.
«Ti richiamo» dissi, e riagganciai.
Uno dei miti più longevi dell’umanità è che i soldi diano la felicità e siano la soluzione a tutti i problemi. Io li avevo persi, e quello era un problema. Ora sembrava che ne avessi recuperata una parte non indifferente, ma anche quello era un problema. Avevo dato la mia parola a quelle associazioni benefiche. Mio padre aveva fatto molte promesse a vuoto ed io avevo giurato a me stesso che non sarei mai diventato una persona che non mantiene la parola data. Sapevo che quella gente avrebbe capito. Nessuno si aspettava che dessi via gli ultimi risparmi che mi restavano. Nessuno mi avrebbe biasimato. Anzi, i direttori dell’ufficio donazioni di due delle associazioni più grandi mi avevano detto che spesso molti benefattori importanti si tirano indietro all’ultimo, a volte anche dopo aver firmato i documenti. È così che vanno le cose, e loro non possono che prenderne atto. Le circostanze cambiano. Le mie erano cambiate. Non ero più nella posizione di regalare milioni di euro. O sì?
Chiusi gli occhi ed immaginai il mio cuore che si apriva. Inviai amore e perdono a me stesso per tutti i miei errori. Mandai amore ai miei genitori, e gratitudine perché avevano fatto del loro meglio. Mandai amore a Giaida, ovunque si trovasse, perché era la persona più gentile che avessi conosciuto. Ed a ogni bambino che soffriva perché era povero, o perché i suoi genitori si drogavano, o perché si sentiva solo e pensava che fosse colpa sua. Inviai amore ad ogni persona che avesse dubitato del proprio valore.
Provai un’emozione che avevo sperimentato una sola altra volta in vita mia: la sensazione di essere avvolto dal calore e dall’amore… un senso di profonda pace interiore e l’assoluta certezza che tutto sarebbe andato bene; ma stavolta non ero in mezzo ad un fiume, diretto verso una luce bianca mentre morivo dissanguato su un tavolo operatorio. Riaprii gli occhi e presi il telefono per richiamare l’avvocato. «Firmerò le carte per il trust e donerò tutto come promesso.»
«Stai scherzando, vero?»
«Assolutamente no. Procedi.»
Mentre riagganciavo lo sentii dire: «Porca miseria». Poi ci fu solo silenzio. I milioni di euro non c’erano più, ma ero ancora un neuroscienziato. Non sarei morto di fame. Pur senza possedere una fortuna, sarei stato comunque ricco rispetto alla media. Era giunta l’ora di ricominciare da capo e diventare davvero una persona di valore, a prescindere dai soldi. Era ciò che Giaida aveva cercato di insegnare a quel ragazzino, ma alcune lezioni non si possono impartire dall’alto: bisogna viverle sulla nostra pelle.
Non sapevo che nel 2007, quando Accuray si sarebbe quotata in Borsa, sarebbe stata valutata 1,3 miliardi di euro ed il trust, se fosse stato ancora mio, avrebbe raggiunto un valore di trenta milioni. Ma se anche l’avessi saputo non avrei cambiato idea. In quel momento mi sentii libero, libero di seguire la bussola del mio cuore, quella sensazione non aveva prezzo. La scimmia che mi si era aggrappata alla schiena per tanto tempo, illudendomi che i soldi mi avrebbero dato felicità e controllo, mi lasciò libero all’improvviso.
Il cervello ha i suoi misteri, ma il cuore racchiude segreti che ero deciso a scoprire. Il percorso di ricerca iniziato nella bottega, mi aveva spinto ad intraprendere un viaggio interiore, alla scoperta di me stesso, quel viaggio non era finito. Sapevo di doverlo proseguire nella direzione opposta, verso l’esterno.
La mente vuole dividerci e tenerci separati. Ci insegna a paragonarci agli altri, a distinguerci, a prenderci ciò che ci spetta, perché le risorse non bastano per tutti. Il cuore, invece, vuole connetterci e condividere. Vuole mostrarci che non ci sono differenze e che siamo tutti uguali. Il cuore ha un’intelligenza tutta sua, se lasciamo che ci insegni qualcosa, scopriremo che possiamo conservare ciò che abbiamo, solo se lo doniamo a qualcuno. Se vogliamo essere felici, dobbiamo rendere felici gli altri. Se vogliamo ricevere amore, dobbiamo darne. Se vogliamo gioia, dobbiamo donare gioia. Se vogliamo il perdono, dobbiamo perdonare. Se vogliamo la pace dobbiamo crearla nel mondo intorno a noi. Se vogliamo che le nostre ferite si rimarginino, dobbiamo curare gli altri.
Era tempo di tornare a fare il terapeuta.